Vi sono eventi che sfuggono alle usuali classificazioni, eventi che rompono la continuità di vita della persona, creando una linea di separazione incancellabile tra il prima e il dopo; sono esperienze che travalicano la capacità dell’individuo di fronteggiarle e che producono perciò una disorganizzazione radicale nel suo funzionamento emotivo e cognitivo: questi sono i traumi. Partiamo innanzitutto dalla definizione: per trauma si intende qui quell’evento, o serie di eventi, collegato ad un’esperienza soggettiva di impotenza inerme o di incapacità di evitare il pericolo insito in esso.
Un terapeuta che abbia in trattamento una persona con una storia traumatica alle spalle, che abbia subito per esempio abusi sessuali, si imbatterà probabilmente in fenomeni corporei difficili da catalogare: il paziente potrà riferire che, facendo dei movimenti rapidi e forti con un braccio, proverà la sgradevole sensazione che sia un’altra persona a possedere quel braccio, oppure dirà che quel braccio è suo fino al polso e poi non gli appartiene più. Un altro paziente riferirà la sua incapacità ad alzare il tono della sua voce nelle situazioni che lo richiedono, anche se non sono caricate affettivamente, e si accorgerà successivamente che nel momento in cui userà un tono più forte nel parlare, o se addirittura tenterà di urlare, sarà spaventato terribilmente dalla sua stessa voce, come se non provenisse da lui ma da un altro, dentro o accanto a sè. Sembra cioè che in questi casi il corpo non appartenga più al soggetto, quando si muove diversamente dal solito e/o quando alza il suo livello di attivazione fisiologica.
E’ ovvio che l’Altro percepito dentro di sé ha a che fare con le vicende dell’abuso, non è però altrettanto scontato il modo per alleviare questo senso di alterità e ricomporre un senso minimo di identità. Ciò che risulta evidente comunque è il fatto che il corpo, a modo suo, è portatore di significati ed è in grado di configurare scenari in cui delineare la storia traumatica del soggetto.
Se il trauma è stato grave o abbastanza precoce può disgregare lo sviluppo dell’Io in modo sufficiente da precludere le capacità necessarie al lavoro analitico. Al paziente può mancare la capacità di instaurare una minima alleanza terapeutica; può mancare l’accesso alle esperienze soggettive interiori ed alle emozioni, così come la capacità di tradurle in parole; può mancare la capacità di introspezione che implica una separazione tra un Io osservatore ed un Io che fa esperienza; può mancare la volontà di cercare di confinare i propri impulsi all’espressione verbale piuttosto che estenderli all’azione; e può mancare un Io sufficientemente forte da evitare gravi regressioni di fronte a potenti vissuti, ricordi e desideri che saranno evocati da un tale procedimento (Sugarman A., 1999, p. 14) .
Possiamo dire che il trattamento del trauma mostra zone di ampia resistenza alle terapie esclusivamente verbali proprio per le caratteristiche specifiche della memoria traumatica. I ricordi traumatici hanno infatti una sorta di statuto proprio, dato che sembrano “incapsulati” all’interno della struttura psico-corporea dell’individuo, e quando riemergono tendono a sfuggire ad una trama narrativa, ma si presentano sotto forma di frammenti sensoriali intrusivi ed improvvisi. Molti autori concordano sullo statuto neurofisiologico di tali esperienze soggettive, e ne mettono in luce la funzione di disorganizzazione cerebrale, soprattuto per quanto riguarda l’interruzione delle connessioni con le aree deputate all’elaborazione del linguaggio. In più, notiamo che, a seguito di un evento traumatico, il sistema-emozione della vittima può entrare in crisi, compromettendo le tre fondamentali dimensioni del suo esistere: si registra una perdita di autostima e di fiducia (dimensione psichica), si sviluppano stati di iper o ipo attivazione neurofisiologica (dimensione corporea) e si compromette la capacità di chiedere ed accettare aiuto (dimensione relazionale). Occorre pertanto introdurre nel trattamento un’attenzione supplementare alle dimensioni della corporeità e della relazionalità, senza incorrere in quegli errori che alcuni terapeuti commettono, applicando tecniche di intervento non adeguate al problema.
(Liberamente tratto da “La solitudine senza speranza”. Un approccio psico-corporeo al trauma di Maurizio Stupiggia)
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